Viareggio 17 aprile — 1 maggio 2002

La regola e il mito

Mario Borgese è un artista con una lunga carriera i cui salienti occorre riassumere per dare il senso delle opere esposte in questa mostra.
Negli anni settanta Mario Borgese dipinse una serie di opere rappresentando edifici razionalisti, scorci urbani rigidamente stereometrici, architetture in cui dominano le pareti vetrate degli edifici e sullo sfondo angoli di cielo. La tonalità prevalente è il grigio, appena corretto dal rosso e dal blu. Manca qualsiasi accenno di essere animato e tutta la scena appare bloccata, fuori del tempo. 

Il ciclo si iscrive per le forme ma non per la sua motivazione, come diremo alla fine, in quella tendenza variegata ed eclettica di ritorno alla figurazione (o ‘nuova figurazione’) dopo gli eccessi del periodo informale ed astratto, un modo che secondo alcuni critici era una mediazione con la pratica tradizionale della pittura,  un legame con gli stili del passato e un recupero dell’immagine, il tentativo di ritrovare il senso nell’opera pittorica. Naturalmente, non una restaurazione ma una metamorfosi della  figurazione.
Occorreva superare lo sperimentalismo e l’idea che l’arte dovesse essere evoluzione e progresso, proposizione, questa, condivisibile perché svelava l’aspetto ideologico di buona parte della storia dell’arte. Meno condivisibile (e contraddittoria), era la pretesa, poi teorizzata nella Transavanguardia, di ritrovare un senso al fare artistico dal momento che si rinunciava al progetto e al criterio di valore. Di conseguenza, l’arte non dandosi più come valore, non si dava più come visione del mondo.

Ma ritorniamo alle ‘città’ di M. Borgese. Esse rappresentano i deserti costruiti dell’uomo, sono Stille Leben, cioè secondo la traduzione letterale ‘nature silenti’. Sono piazze, edifici, sculture, manufatti, luoghi della cultura umana dove domina la regola ma abbandonati, lasciati come memoria della catastrofe: il dramma umano è concluso, la scena vuota e tutti gli attori sono partiti dimenticando aperto il sipario.  Ma catastrofe, ultimo quadro di quale dramma?
I dipinti di Borgese nella temperie culturale e letteraria degli anni settanta potevano, quindi, essere interpretati come una denuncia sociale. Infatti, scriveva Walter Alberti a proposito di questo ciclo urbano: “L’assunto di fondo, a voler indagare nella molla ispiratrice dell’autore, si snoda attraverso un’interpretazione della realtà violenta che ci circonda  tentando di presentarla come un monito continuo.”
Certamente c’è la denuncia della violenza ma non solo questo, naturalmente. Questo ciclo di opere rende possibile una lettura più complessa che solo oggi è matura.  Sbarazziamoci di un apparente rimando ad un metafisico ‘altrove’ come in De Chirico e Carrà.  Invece, in questo finale pittorico, concreto e melanconico, è rappresentato il dramma proprio della contemporaneità : l’esistenza umana si è risolta nella tecnica, senza apparenti residui, ma tutto è diventato duro e inautentico. Qui, davvero è rappresentato lo scacco al logocentrismo della cultura occidentale (A. Bonito Oliva). La tecnica simboleggiata dagli edifici razionalisti, sedi organizzative della produzione, ha realizzato la concezione idealistica del mondo, il dominio della verità scientifica, in ultima analisi del  logos.
Il leone di pietra che compare in un’opera è, quindi, un ossimoro, il suo senso è di rappresentare l’impotenza.  Si, questi ambienti urbani sono i luoghi di esistenza inautentica dove si bruciano vite infelici,  ma, contemporaneamente, il luogo dove si condensa il sapere umano sotto forma di tecnica. Le rigide forme utilitarie dietro le quali ci sono le procedure di produzione, dicono che non c’è luogo per l’immaginazione e la spontaneità,  esse sono  l’allegoria del trionfo del sapere matematico e del linguaggio puramente logico. Qui è impossibile il vagheggiare (“Vagheggiare, bellissimo verbo” Leopardi, Zibaldone di pensieri).

In un secondo ciclo di opere dello stesso periodo, invece, sono raffigurati dei drammi già rappresentati in celebri opere, ma di essi rimane riconoscibile solo il profilo delle figure.
L’assieme è reso nel contrasto del colore sul fondo nero che emerge, e i colori stesi a macchie sono  “strappati” ancora freschi col tampone. Marat è assassinato nel bagno e tutta l’immagine si decompone,  Cristo è sorretto dalla madre che quasi si dilegua sullo sfondo rutilante mentre ai bordi compaiono dei segni grafici. Tutte le scene sono fissate nel momento della catastrofe, suggerita anche dalla macerazione del colore. C’è, quindi, la storia, il richiamo alle opere degli antichi maestri e a loro decontestualizzazione.
Un evento è accaduto fin quando qualcuno, l’artista e noi spettatori, conserva la sua memoria. Qui c’è la traccia dei fatti costituiti dall’assassinio di Marat e della Pietà sul corpo di Cristo,  fatti ormai trasfigurati,  ma anche delle opere di David e Michelangelo conservate nei musei.  Esse, quindi, sono una nuova interpretazione, un utilizzo estetico volto ad un nuovo significato, diverso dal fatto storico o dall’opera d’arte dei maestri, che si aggiunge alla interminabile catena di eventi in cui ognuno di essi tende a dissolversi  e decomporsi quasi come si decompone la materialità del colore. Perciò degli eventi della storia non rimane che una reinterpretazione e la prefigurazione.

Il tema della città di cui ho parlato all’inizio viene ripreso in anni più recenti ma con alcune differenze. Le architetture sono solo parzialmente riprese lasciando diversi spazi vuoti e, qua e là, balenano accenni di colore. Non sono passati  invano due decenni. Alla denuncia della violenza della vita quotidiana e della inautenticità è subentrato un diverso grado di ricerca.
Il fatto che più colpisce è il contesto vuoto in cui si offre allo spettatore l’immagine immota, e occorre notare che è l’immagine a rendere possibile per contrasto la sensazione del vuoto. Infatti, l’incompletezza di una immagine plastica o bidimensionale, come pure la pausa di silenzio in una recita, provocano tensione.

L’incompletezza e il vuoto diventano il tema in un terzo ciclo di opere qui esposto. I soggetti delle immagini sono frammenti di statue antiche dalle orbite vuote . Esse sono immagini inquietanti. Tutto ciò che riguarda la vista deve essere completo, massimamente gli  occhi, che sono gli organi della visione, per il rimando reciproco fra occhio e visione. Infatti, nessuna visione naturale ha delle parti vuote (altrimenti ci allarmeremmo), ma deve essere un continuo di forme e di colori. Sta poi al guardante far accadere l’evento che gli interessa, mettendo in secondo piano tutto il resto, interpretando la visione.
La parte incompleta è, quindi, una potente allegoria dell’assenza. Ma assenza di che?  perché inquieta il vuoto? a che allude la figura decontestualizzata? che c’è di là ?
Siamo su una soglia inesplorata in cui la catena dei rimandi interpretativi si interrompe, una soglia di sospensione interminabile.
In un’opera intitolata “Dialogo sul potere” due frammenti della statuaria antica, Marte e Marco Aurelio su fondo vuoto, si confrontano in un dialogo muto e ci trasportano in un’antichità favolosa. Essi simboleggiano il dialogo fra il mito e la ragione che sappiamo essere un motivo frequente della filosofia e della letteratura greca. All’inizio fra parola e mito non c’era differenza di significato, poi contro il mythos si impone il logos dei filosofi. Il mito viene confinato nel mondo della favola e dell’emozione. Un processo lento, ma alla fine lo scientismo che precede la modernità lo condannerà definitivamente in quanto estraneo alla verità.  

Mi si perdoni questa interpretazione storico – razionalista. Ma ora è possibile concludere anche se in modo sommario. In realtà, la genesi dei tre cicli non fu lineare in quanto per un certo periodo i temi si sovrapposero. Alla fine di questa ricerca, però, rimettendo in fila l’esperienza fatta, Borgese matura l’idea che la separazione dell’umanità del mito da quella della ragione ha prodotto la dittatura del logos e che esso introduce nell’esistenza la storia, storia come interpretazione e prefigurazione, e con essa la coscienza della morte. Borgese è profondamente coinvolto in questi temi e, al contrario di chi vede come ruolo possibile per l’artista solo una collocazione a latere e il depotenziamento della pittura, vuole dare un’interpretazione forte del mondo attuale. (U.G.)