riContemporaneo n° 7
Qualità, stile e perdita

L’incontro che dovremmo avere con l’arte credo debba essere del tutto “originale”. L’opera d’arte deve dunque possedere quell’incanto, quella misteriosa presenza e lontananza che la caratterizza, legata a suo modo a quella origine ancestrale della espressività umana legata al senso magico, rituale e sacrale dell’esistenza; deve perciò essere abitata da quell’aura che ne custodisce il senso, quell’eidos, che apre ad un universo di significati, a quella unicità e a quella autenticità che la contraddistingue. Diversamente ci troveremmo di fronte ad un fare arte “alla maniera di…”. La maniera di fatto ripete schemi concettuali già acquisiti e non innova. Scompare per sempre ogni tensione verso ciò che chiamiamo autentico, unico ed originale. Ogni poetica artistica si dà i suoi ordini, le sue regole, le sue tecniche. Crea di fatto un nuovo stile (la parola stile deriva dal quel chiodo, lo stilo, col quale i Sumeri incidevano l’argilla).
Stile è ciò che incide e lascia una traccia, dà inizio a un movimento nuovo cui attingeranno coloro che faranno arte “alla maniera di…” quello stile. Ovviamente si richiede che colui che opera conosca la “grammatica” del proprio operare, e utilizzi le tecniche più congeniali al proprio fare.
Lo stile, dunque, si accompagna ed è connesso alla qualità, benché i due termini comportino ambiguità.
Declinarne gli aspetti sul piano artistico è necessario. D’altra parte non possiamo pensare che questi due termini stiano l’uno accanto all’altro in modo rigidamente e rigorosamente delimitabile nei loro intrecci, non essendo così alternativi come a prima indagine possono apparire. Essi stanno tendenzialmente in modo che il secondo termine assorba il primo, quindi tendenzialmente questi due termini fanno si che il primo si inscriva progressivamente nel secondo e trovi quindi la sua verità. L’artista li abita come apertura al fare. E tale pratica si traduce in una esperienza di tipo tecnicoespressivo.
Tuttavia, nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Walter Benjamin annota il venir meno dell’aura e della sacralità dell’opera d’arte, e quindi la perdita del suo topos naturale. Essa si disperde, nella sua molteplicità, in infiniti luoghi. Perde la sua capacità di dar corpo a fantasmi, rendendoli simulacri e feticci dell’originale.
Dice Carlo Sini che proprio l’idea della copia, tecnicamente costruita, è all’origine della smagicizzazione del mondo. Ed è proprio allora che anche l’originale scompare per sempre. Prossimità e lontananza svaniscono e lasciano il posto alla semplice e inerte presenza dei prodotti di un supermercato. Dunque l’arte diviene merce per il consumo di massa, e nell’efficienza della nostra epoca si perde la verità del mondo.
Quanto di ciò sia addebitabile al mercato è presto detto. Il potere economico e quello politico decidono quale arte può essere più funzionale al proprio potere, omologando le diversità che vengono ridotte a uniformità. Nell’attuale civiltà di mercato è difficile reagire a questo sistema. È tuttavia compito di ogni intellettuale e di ogni artista operare perché la genesi di un nuovo modello di società diventi possibile.
Holderlin, nel “Poeticamente abita l’uomo” citato da Jean Clair in “L’inverno della cultura”, ci dice che l’uomo abita la terra come poeta, e dunque la sua arte è mortale.

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